Pubblicato da: ruotenelvento | giugno 7, 2022

Record di velocità per carri a vela – Riuscirà Horonuku di Emirates New Zealand a superare i 202,9 kmh dell’Ecotricity Greenbird?

Si festeggia Richard Jenkins che ha appena ottenuto il record di 202,9 kmh sull’Ivanpah Dry Lake (foto Ecotricity Greenbird, materiale inviato all’autore per un ampio servizio su Volare, settembre 2010)

Nella ricerca della massima velocità in carro a vela il Greenbird di Richard Jenkins, che nel marzo del 2009 sull’Ivanpah Dry Lake raggiunse i 202,9 kmh, ha rappresentato lo spartiacque tra un approccio brutale e casareccio e uno straordinariamente più sofisticato. L’Ironduck pilotato da Bob Schumacher, che dieci anni prima sullo stesso spot aveva toccato i 187,7 kmh, era più o meno un pezzo di ferro costruito nel garage dietro casa. Per l’assale del mio primo landyacht segai col frullino i mozzi di una Panda allo sfascio, quelli dell’Ironduck provenivano invece da una Volvo, come dire che poteva essere ancora roba alla nostra portata. E manteneva il concetto al quale siamo abituati quando navighiamo su terra: tre ruote, con quella sottovento che si oppone naturalmente al ribaltamento, a costo, certo, di un considerevole attrito. Ma a parte un’evidente maggiore attenzione all’aerodinamica generale e all’utilizzo del carbonio, le novità sostanziali tra Ironduck e Greenbird erano due. La prima riguardava la manovra della vela. Grazie ad una piccola appendice aerodinamica il controllo è praticamente automatico, impostato sull’angolo di attacco più efficiente, dispensando il pilota dal mettersi a fare regolazioni di precisione quando, attorno ai 200 kmh, con 40 nodi, raffiche e polvere sta cercando di seguire la rotta migliore o quantomeno di sopravvivere. Nell’abitacolo dell’Ironduck un piccolo volantino comandava tramite catena e pignone la vela, ma per sterzare non c’era niente di differente dal Seagull che trovate in una scuola francese della FFCV, vai di pedaliera, solo che stai andando terribilmente veloce nel chiasso più totale (quando intervistai Bob Schumacher una delle caratteristiche più fastidiose del mezzo, col telaio in traliccio, era proprio la rumorosità). La seconda novità, che sorprese anche i velisti di terra più smaliziati, fu la rivoluzione del terzo punto d’appoggio, SOPRAVENTO, con una ruota che non era più all’estremità di quello che potremmo definire un mero asse, ma di un’ala. Così, mentre le due ruote nello scafo garantivano traiettoria e direzionalità, il più pulito degli equilibri veniva dato proprio da quell’asse all’estremità del quale una ruota è poco più di un accidente. Due calcoli bisognava farli, perché quel profilo alare oltre a creare deportanza – circa 400 kg sul Greenbird – poteva anche ospitare della zavorra. Con una vela tradizionale una configurazione del genere sarebbe rischiosa, ma una rigida, che accelera più lentamente, permette al profilo alare sopravento di svolgere il suo lavoro quando la minaccia di ribaltamenti è ancora lontana.

Richard Jenkins – brillante ingegnere inglese, allora trentatreenne, e ovviamente pilota – si era occupato personalmente anche di gran parte della realizzazione del mezzo. Trascorsero quasi dieci anni di modifiche anche radicali nel progetto e negli sponsor – avrebbe dovuto lottare anche per il record su ghiaccio, con differenze sostanziali nella configurazione, e si chiamava Windjet prima che intervenisse a supporto Ecotricity, una società che fornisce energia elettrica da fonti rinnovabili, prevalentemente, indovina un po’? – perché potesse portarlo al successo. È evidente che un team come Emirates New Zealand se non può concentrarsi in maniera assoluta sul Horonuku – priorità alla AC75 da defender per Barcellona 2024 e poi c’è l’altro progetto laterale dell’imbarcazione ad idrogeno – può comunque disporre di uomini, know how e risorse consistenti. La discussione preliminare è iniziata nemmeno un anno fa, nel luglio del 2021, e a novembre dello stesso anno si cominciavano a preparare le forme sulle quali laminare il carbonio. Tecnicamente non si torna indietro, quindi la ruota esterna si trova ancora sopravento, all’estremità del lungo profilo alare. Non si parla di terza ruota perché lungo lo scafo ce ne sono già tre, una anteriore e una coppia in tandem dietro per contenere la superficie frontale, mentre la posteriore del Greenbird era tipo formula, larga, montata su una sospensione studiata dalla Lola Cars. Queste ruote in tandem possono essere avvicinate o allontanate dal centro velico eliminando una sezione di circa un metro dello scafo in modo da avere uno yacht bilanciato a piacere e questo è uno degli elementi sui quali si sono concentrati i test sulla pista dell’aeroporto di Whenuapai, una delle basi dell’aeronautica militare neozelandese. Per il momento sembra che i risultati migliori si stiano ottenendo con la versione corta, che compatta massa, centro velico e centro di resistenza laterale. Un altro componente fondamentale da definire sono il complesso ruote, in modo da fornire l’aderenza necessaria senza attriti molesti. Considerando motivi di costi e di rapidità di costruzione vela, albero e profilo orizzontale sono stati realizzati con fibra di carbonio preimpregnata mentre lo scafo con pelli a secco e infusione, un processo che produce pezzi relativamente pesanti, particolarmente indicati per un veicolo che deve sfruttare al massimo il momento.

I test hanno soddisfatto il pilota Glenn Ashby e tutto il team, pronto a impacchettare Honoruku e a spedirlo in Australia, sul lago Gairdner, dove probabilmente in agosto comincerà a puntare al primato. Come per qualsiasi record di velocità l’incognita maggiore rimane sempre quella di una finestra sufficientemente ampia con almeno 35 nodi per mettere a punto il mezzo per quelle condizioni specifiche e poi tentare il tutto per tutto.


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